Avvocati Pisa

Avvocato Anna Piroddi - Cascina (Pisa)

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In cosa posso esserti utile

Anna Piroddi - Avvocato | PisaTi illustrerò nelle prossime righe il mio lavoro, ma soprattutto in che cosa posso esserti utile. Per farlo, cercherò di utilizzare le parole più semplici e chiare che conosco.

Mi occupo solo di determinate aree giuridiche e le persone alle quali rivolgo la mia sensibilità, in genere stanno affrontando o hanno affrontato difficoltà prossime a quelle che sono o sono state anche le mie piccole lotte quotidiane.

Sono stata collaboratrice di strutturati studi legali, sottoposta spesso a format e prescrizioni aziendalistiche tipiche degli studi multi articolati e sono pure libera professionista.

Non mi occupo di diritto penale.

In concreto il mio impegno professionale si realizza nel fornire assistenza e consulenza stragiudiziale e giudiziale nei seguenti specifici ambiti: diritto del lavoro e diritto civile.

Queste le aree di mia competenza:

A) materia giuslavoristica e del diritto sindacale (tutela datoriale e di lavoratori) con particolare riguardo a:

B) materia civile: diritto contrattuale (locazione, compravendita, agenzia), diritto civile “ordinario” (questioni e problematiche riguardanti la proprietà e i diritti reali), diritto bancario (problematiche legate al conto corrente: interessi, usura, anatocismo ex art. 1283 c.c.), recupero crediti: procedimenti di ingiunzione di opposizione a decreto ingiuntivo, azione esecutiva (ricerche fondiarie, iscrizione d’ipoteca, pignoramento, sospensione esecuzione, atti pregiudizievoli per il creditore e azione revocatoria), responsabilità civile e risarcimento del danno (da cose in custodia, da insidia, da lesioni personali, da mobbing e prodotti difettosi, da trasfusioni di sangue ed emoderivati) nonché del diritto della persona e della famiglia (separazione personale tra coniugi, divorzio, accordi economici tra coniugi, divisione ereditaria).

L’attività in queste aree si realizza attraverso uno studio preventivo della relativa documentazione e attraverso il compimento di una analisi normativa e giurisprudenziale in banche dati giuridiche on line e cartacee al fine non solo di risolvere ma anche di prevenire la soluzione di questioni giuridiche proposte dal cliente con una quotidiana cura degli adempimenti e scadenze relative alle pratiche affidate e frequentazione delle aule e degli Uffici Giudiziari.

Il mio impegno professionale è diretto a fornire soluzioni e risposte in modo facile e senza intermediazioni anche mediante lo stesso computer dal quale scrivo.

Dopo 14 anni di lavoro nel mondo forense ho potuto, infatti, constatare come spesso risulti necessario instaurare con la figura dell’avvocato un rapporto più immediato senza dovere attendere per ore anche solo per un incontro nelle sale d’aspetto dello studio legale.

Da qui il mio sforzo di fornire la consulenza richiesta in tempi rapidi e quando sia realmente fattibile dietro il doveroso studio (e secondo le idonee e corrette misure), anche direttamente sul proprio personal computer.

Segue un piccolo estratto delle difficoltà, dei quesiti e problematiche affrontate e condivise nella mia consuetudine professionale con coloro che mi hanno investito della loro preziosa fiducia, realizzando un rapporto di rispetto collaborativo e sinergico, atteso che nessuna opera professionale può essere efficacemente svolta senza il contributo collaborativo e congiunto del cliente.

La complessità delle stesse tematiche affrontate mi ha imposto una esposizione a tratti più tecnica (di cui mi scuso) nondimeno confido che quanto sotto illustrato possa essere afferrato con chiarezza offrendo quantomeno un assaggio delle tematiche sociali e giuridiche che come avvocato ho avuto modo di incontrare.

LICENZIAMENTO

Penso di essere stato licenziato ingiustamente quali sono i miei diritti come posso impugnare l’atto di recesso del datore di lavoro?

Per l’impugnazione del licenziamento occorre rispettare un duplice termine:

1) quello di decadenza di 60 giorni di tempo che decorrono dalla data del licenziamento o dalla data di comunicazione dei motivi del licenziamento (entro il quale proporre l’impugnazione stragiudiziale mediante, una diffida, una lettera raccomandata a .r.) e

2) un ulteriore termine di 180 giorni di tempo (che decorrono dalla data di impugnazione stragiudiziale del licenziamento) per proporre l’impugnazione giudiziale dell’atto di recesso.

La disciplina procedurale applicabile è diversa a seconda

La disciplina del licenziamento ha subito negli anni una serie di profonde modifiche legislative.

Resta fermo il principio (introdotto dapprima dalla l. 604/1966 e poi art. 18 L. 300/70) dell’obbligo di motivazione del licenziamento (che può essere per giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo) mentre il regime di libera recedibilità (i casi in cui il datore di lavoro può recedere liberamente “ad nutum” ad un solo cenno del capo, senza obbligo di motivazione), sono limitati a ipotesi ristrettissime (come nel caso di dirigenti con funzioni apicali i quali sono quasi considerati un alter ego dell’imprenditore, oppure ad esempio nel caso di lavoratori ultrasessantenni aventi i requisiti pensionistici e poche altre ipotesi come nel caso dei prestatori di lavoro domestico, gli sportivi professionisti o, in particolare, i lavoratori assunti in prova il cui regime applicativo si rinviene nell’art. 2096, comma 3, cod. civ. secondo cui “durante il periodo di prova ciascuna delle due parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità”, in qualunque momento).

L’obbligo di motivazione del licenziamento costituisce in ogni caso la regola, la non motivazione l’eccezione.

Cosa si intende per licenziamento intimato per giusta causa e per giustificato motivo?

La giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c. ricorre quando si realizzi un inadempimento del lavoratore talmente grave da non consentire, neanche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto di lavoro.

In presenza della giusta causa è infatti consentito al datore di lavoro di recedere immediatamente dal contratto senza necessità di preavviso proprio perché la gravità del motivo non consente di tenere in vita, anche solo provvisoriamente, il rapporto di lavoro.

La giusta causa non deriva esclusivamente da inadempienze contrattuali ma può originare da comportamenti anche estranei alla sfera contrattuale eppure idonei a far venire irrimediabilmente meno la fiducia del datore di lavoro.

La nozione di giustificato motivo è invece prevista dall’art. 3 della l. 604/1966 che distingue tra giustificato motivo “soggettivo” e “oggettivo”.

Il giustificato motivo soggettivo ricorre quando vi sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore. Si deve trattare di un inadempimento “grave” di non scarsa importanza, come quello che ai sensi dell’art. 1455 c.c. legittima la risoluzione di un contratto.

Esempi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo sono stati enucleati dalla giurisprudenza nel caso di violazione delle direttive aziendali, nel caso delle assenze ingiustificate, nel caso di falsificazione e divulgazione di documenti aziendali ecc.

Che differenza dunque sussiste tra la giusta causa che può ricorrere anche in un caso di inadempimento contrattuale dal giustificato motivo soggettivo?

Il giustificato motivo soggettivo è ipotesi meno grave rispetto alla giusta causa: pur sussistendo il giustificato motivo soggettivo il rapporto di lavoro può provvisoriamente rimanere in vita (sino alla scadenza del periodo di preavviso); la giusta causa non consente invece la prosecuzione (neppure provvisoria) del rapporto di lavoro e come tale non viene garantito il rispetto di un periodo di preavviso visto che non è possibile mantenere in vita, neppure transitoriamente, la relazione contrattuale.

Il giustificato motivo “oggettivo” riguarda invece ragioni inerenti l’attività produttiva o la organizzazione del lavoro (es. cessazione attività, soppressione posto di lavoro).

Fatti i suesposti distingui di massima in ordine alle motivazioni del licenziamento che come sopra rilevato devono essere indicate nella lettera di licenziamento, ai fini del regime applicabile al licenziamento, occorre guardare al tempo di assunzione del lavoratore.

Nel caso di lavoratore già in forza presso l’azienda prima dell’entrata in vigore del Jobs Act (ossia assunto prima del 7 marzo 2015) occorre distinguere, come già avveniva in passato, tra imprese con più o meno di 15 dipendenti.

Nelle imprese con più di 15 dipendenti (nell'unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato oppure nell'ambito dello stesso comune); e in ogni caso per i datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di sessanta lavoratori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo delle unità produttive, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo si applica l’art. 18 comma 4, della L. 300/70 come modificato dalla riforma Fornero (L. 92/12), che prevede per il licenziamento illegittimo quattro diversi gradi di tutela.

1)TUTELA REALE C.D. FORTE: (art. 18 c.1 l. 300/70) che si applica nei casi di nullità del licenziamento, perché:

a) fondato su ragioni di credo politico o fede religiosa, sull’appartenenza ad un sindacato e sulla partecipazione ad attività sindacali - art. 4 L. 15 luglio 1966, n. 604;

b) determinato da motivazioni di natura politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali - art. 15 della L. n. 300/1970, come integrata tenendo conto delle disposizioni dei D.Lgs. n. 215/2003 e n. 216/2003;

c) intimato tra la richiesta di pubblicazione del matrimonio sino ad un anno dalla celebrazione dello stesso (art. 35 del D.Lgs. n.198/2006), ovvero nel periodo di tutela previsto dalla legge per la lavoratrice madre o comunque derivante dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale (art. 54, commi 1, 6 e 9 del D.Lgs. n. 151/2001);

d) riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante (art. 1345 c.c.);

e) dichiarato inefficace in quanto intimato in forma orale. In questi casi il giudice con la sentenza che dichiara nullo il licenziamento ordina anche la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito stabilendo un indennità non inferiore alle 5 mensilità commisurate all’ultima retribuzione globale di fatto. Il lavoratore, come accedeva anche in passato, può scegliere di non essere reintegrato sul posto di lavoro e di vedersi corrisposta un’ulteriore indennità sostitutiva pari alle 15 mensilità.

2) TUTELA REALE LIMITATA: trova applicazione quando:

a) il licenziamento intimato è senza giusta causa perché il fatto contestato è insussistente oppure rientra in una condotta punibile con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili ( ART. 18 L. 300/1970 c. 4);

b) quando il fatto contestato è manifestamente insussistente;

c) oppure quando vi è assenza di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore. In questi casi Il giudice, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso, la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

3) TUTELA RISARCITORIA FORTE: quando non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o oggettivo o della giusta causa.

È il caso in cui pur essendo il licenziamento illegittimo - il fatto sussiste ma non è così grave da comportare il licenziamento oppure esistono delle cause di giustificazione della condotta del lavoratore.

In ogni caso il fatto contestato al lavoratore deve essere “sussistente”, altrimenti si ricade nell’ipotesi precedente (in cui il Giudice dispone la reintegrazione del lavoratore).

In questi casi di sussistenza del fatto ma di difetto delle condizioni per l’irrogazione di un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e il datore di lavoro viene condannato al pagamento di un indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di 12 e 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa.

4) TUTELA RISARCITORIA DEBOLE: licenziamento intimato in violazione dei requisiti di motivazione del recesso (art. 2 L. 604/66) o in violazione della procedura da seguire per il licenziamento disciplinare (art. 7 L. 300/70) o in violazione del procedimento di conciliazione preventiva ex art. 7 L. n. 604/66.

In questo caso il Giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna al pagamento di un mero indennizzo tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità.

In ogni caso il lavoratore in corso di causa può chiedere che il Giudice accerti la insussistenza, nel merito, della ragione addotta per il licenziamento, ed in questo caso si applicheranno, in caso positivo, le sanzioni previste per l’altra ipotesi di licenziamento illegittimo.

Quando invece siamo in presenza di imprese fino a 15 dipendenti non si applica l’art. 18 ma si applica la tutela obbligatoria ex art. 8 l. 604 /66: che prevede, nel caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, la condanna del datore di lavoro alla riassunzione entro 3 giorni oppure la condanna al risarcimento del danno mediante il versamento al lavoratore di un’indennità compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità.

Nella tutela obbligatoria, pertanto spetta al datore di lavoro scegliere se riassumere oppure accollarsi solo l’indennità risarcitoria del danno diversamente da quanto accade nella tutela reale (aziende con più di 15 dipendenti) in cui il diritto di scelta tra l’opzione di riprendere servizio presso quell’azienda o accettare solo il risarcimento spetta al lavoratore.

La tutela obbligatoria, si badi bene, prevede la riassunzione non la reintegra.

Che differenza c’è tra i due istituti?

Con la reintegra non si ha interruzione del rapporto di lavoro e neanche di quello assicurativo e previdenziale, tanto che il datore condannato a reintegrare il lavoratore dovrà anche corrispondere le retribuzioni e le contribuzioni medio tempore maturate (dal giorno del licenziamento sino alla data di reintegra come se quel rapporto di lavoro non fosse mai cessato).

Nel caso della riassunzione il rapporto di lavoro precedente a cui si è posto fine col licenziamento è invece risolto; nasce un nuovo rapporto lavorativo e previdenziale.

Diverso è ancora il regime del licenziamento nel caso del lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, dopo l’entrata in vigore del Jobs Act.

La nuova disciplina del Jobs Act, introdotta dal Decreto Legislativo n. 23/2015, si applicava infatti solo ai lavoratori assunti a far data dal 7. 3.2015, e nei casi di conversione del loro contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato o di stabilizzazione del contratto di apprendistato, se avvenuta successivamente all’entrata in vigore del decreto, oppure qualora in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto stesso, il datore di lavoro raggiungesse il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, commi 8 e 9, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (superamento della soglia dei 15 dipendenti).

Mentre per i lavoratori assunti in precedenza (prima del 7 marzo 2015) ma licenziati successivamente, si continuava ad applicare l'articolo 18 così come riformato dalla Legge Fornero secondo la disciplina suesposta.

Con l’applicazione del Jobs Act (D. Lgs. 23/2015), la reintegra trova spazio solo in due casi:

1) per i licenziamenti discriminatori, nulli, e intimati in forma orale per i quali è prevista la reintegrazione a prescindere dal numero di dipendenti o, a scelta del lavoratore, un'indennità pari a 15 mensilità, oltre al pagamento delle retribuzioni e contribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum);

2) il secondo caso (in applicazione dell'articolo 18 così come modificato dalla Legge 92/2012), che riguarda solo i datori di lavoro con oltre 15 dipendenti e si applica in presenza di:

a) licenziamento per giustificato motivo soggettivo o b) licenziamento per giusta causa, nell'ipotesi in cui sia dimostrata “l'insussistenza del fatto materiale” contestato in giudizio (art. 3 comma 2 e art. 4 d.lgs. 23/2015).

In questo caso, come per il licenziamento discriminatorio, il Giudice ordina la reintegra (con facoltà di scelta del lavoratore di optare per 15 mensilità di indennità sostitutiva) oltre al pagamento delle retribuzioni e contribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino al reintegro (massimo 12 mensilità).

Qualora invece il fatto materiale sussista ma il licenziamento è sproporzionato, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità pari a 2 mensilità (della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR) per ogni anno di lavoro, da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità, senza contribuzione previdenziale.

Qualora l’illegittimità sia determinata da difetto di motivazione o da vizi procedurali, il Giudice dichiara comunque estinto il rapporto alla data del licenziamento e l’indennità erogata non può essere inferiore a un minimo di due e superiore a un massimo di dodici mensilità, variabili in base all’anzianità aziendale.

Il jobs Act, prevedeva dunque la determinazione del risarcimento per il licenziamento illegittimo secondo un meccanismo di tutela “crescente” parametrato all'anzianità di servizio del lavoratore con un minimo di 4 mensilità (ridotte a 2 se il datore di lavoro ha meno di 15 dipendenti) ed un massimo di 24 mensilità (6 se il datore di lavoro ha meno di 15 dipendenti).

Il predetto meccanismo lasciava dunque poco spazio alle facoltà discrezionali del Giudice il quale doveva determinare il risarcimento tra un importo minimo ed un importo massimo prestabilito guardando alla sola anzianità di servizio.

Il Decreto Dignità intervenuto nel luglio del 2018 ha sostanzialmente riconfermato la disciplina introdotta dal jobs Act introducendo unicamente degli incrementi dell’indennità risarcitoria prevista per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e soggettivo senza ampliare le ipotesi di reintegra e senza introdurre delle modifiche sui criteri di valutazione per il calcolo dell’indennità risarcitoria, sebbene da più parti (da noi stessi avvocati e dagli stessi Giudici), fosse stato osservato che la determinazione del risarcimento sulla base della sola all’anzianità di servizio avrebbe portato a delle spiacevoli conseguenze di disuguaglianza e a trattare in maniera uguale situazioni diverse anche ai fini del danno cagionato al lavoratore con la conseguenza di trovarsi dinanzi a categorie di lavoratori più protetti (in genere quelli assunti prima del Jobs Act) e meno protetti (quelli assunti dopo).

Il Decreto Dignità si è limitato a introdurre un incremento delle misure minime e massime dell’indennità risarcitoria che è stata aumentata da 4 a 6 mensilità e dell’indennità massima ora portata da 24 a 36 mensilità. Così invero stabilisce l’art.3 riformato dal “Decreto dignità”:

Art. 3 “Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa”: “Salvo quanto disposto dal comma 2 (che riguarda l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore), nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non soggetta a contribuzione previdenziale di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio,in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a 36 mensilità”.

Per i datori di lavoro che non superano i 15 dipendenti (o cinque per l’impresa agricola) l’indennità minima è stata portata da 2 a 3 mensilità, mentre è rimasto invariato il limite massimo di 6.

A fronte di detto contesto di disparità regolamentare in ordine alla determinazione della indennità risarcitoria parametrata alla sola anzianità di servizio, la Corte costituzionale con dispositivo del 26 settembre 2018 è intervenuta dichiarando illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte - non modificata dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto “Decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.

A norma del recente intervento della giurisprudenza costituzionale, pertanto, ai fini della determinazione del licenziamento, dovranno essere valutati molteplici elementi: il Giudice potrà prendere in considerazione l’anzianità di servizio, il tipo di illegittimità del licenziamento, la gravità, il comportamento delle parti, ecc.

Giova sottolineare che le nuove regole introdotte dal Decreto Dignità, nel silenzio della legge, non hanno efficacia retroattiva, e quindi trovano applicazione solo per i licenziamenti intimati dal 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del d.l. n. 87/218.

I licenziamenti irrogati prima di tale data, pur in presenza di giudizi pendenti, sono invece, assoggettati al vecchio regime.

Le innovazioni inoltre, si ribadisce, non riguardano neppure i lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015; per costoro, restano in vita le norme dell’articolo 18, come modificate dalla legge Fornero del 2012.

Il datore di lavoro e il lavoratore possono comunque a seguito dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento trovare un accordo in ordine al licenziamento mediante la formulazione ed accettazione di una proposta economica?

Il d. lgs n. 23/2015 aveva previsto un’ipotesi di conciliazione stragiudiziale per la risoluzione delle controversie, al di fuori delle aule di Tribunale, mediante la proposta, da parte del datore di lavoro, (entro il termine di 60 giorni decorrente dalla ricezione della comunicazione scritta del licenziamento) di una somma non assoggettata a tassazione irpef e a contribuzione previdenziale commisurata all’anzianità di servizio (una mensilità per ogni anno) e compresa tra un minimo di 2 e un massimo di 18 mensilità (per le aziende sopra i 15 dipendenti; diversamente l’importo era dimezzato).

Detta offerta conciliativa era valida solo se effettuata in una delle sedi conciliative previste dal legislatore (articolo 2113, quarto comma, del codice civile, e articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276): la Commissione di Conciliazione presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro (art. 410 c.p.c.), la sede sindacale (art. 411 c.p.c.), - la Commissione di Conciliazione ed arbitrato prevista dal CCNL (art. 412-ter c.p.c.), - il Collegio di Conciliazione ed arbitrato irrituale (art. 412-quater c.p.c.), - la Commissione di Certificazione (articolo 82, comma 1, del decreto legislativo n. 276/2003). L’accettazione dell’assegno circolare del datore di lavoro determinava per il lavoratore l’estinzione del rapporto (alla data del licenziamento), la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’avesse a già proposta ed il diritto, per il lavoratore, alla indennità di disoccupazione (NASpI), qualora vi fossero tutti gli elementi prescritti.

La predetta ipotesi conciliativa avente prima natura stragiudiziale è stata esplicitamente regolamentata dal Decreto Dignità in sede giudiziale ossia quando nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento le parti decidano di non proseguire con l’istruzione della causa e di addivenire ad una composizione bonaria della controversia mediante la sottoscrizione di un verbale di conciliazione.

L’ipotesi di conciliare una controversia nel rito lavoro nel corso del giudizio è sempre esistita ma non vi era una vera e propria regolamentazione del quantum dell’offerta conciliativa.

La riforma Renzi aveva introdotto la figura dell’offerta conciliativa stragiudiziale il Decreto Dignità regolamenta la conciliazione “giudiziale” e prevede a decorrere dal 13 agosto 2018, l’aumento dell’indennità relativa all’offerta conciliativa (prima disciplinata in sede stragiudiziale) da un minimo di 3 ad un massimo di 27 mensilità.

Il Decreto ha lasciato invariata la misura dell’indennità nell’ipotesi di aziende con meno di 15 dipendenti che resta dimezzata e non può superare il limite di 6 mensilità.

È vero che con il Decreto Dignità introdotto nel luglio del 2018 il contratto a tempo determinato può essere massimo di 24 mesi ed è preferibile per un datore di lavoro non farvi ricorso per non incorrere nel rischio di contenziosi?

In questo ultimo anno tanto si è parlato in numerose sedi più o meno consone (dal mondo forense e giuridico al dibattito politico e di stampa) del c.d. decreto Dignità e del suo avere ridotto la durata massima del contratto a tempo determinato con preclusione per il datore di lavoro di assumere a termine per più di 24 mesi.

Come sempre per una risposta genuina e corretta occorre leggere il testo del decreto legge senza fermarsi ai soli titoli dei giornali o alle dichiarazioni dei dibattiti televisivi.

È vero che il contratto a tempo determinato, che prima con la Riforma Renzi poteva essere stipulato senza motivazione fino a massimo 36 mesi, allo stato, senza obbligo di motivazione, può essere stipulato solo fino a 12 mesi.

Dai 12 ai 24 mesi può essere stipulato solo in presenza di causali specifiche che devono essere ben motivate; occorre giustificare perché si utilizza il contratto.

Dovranno cioè essere indicate le c.d. esigenze temporanee ed oggettive e connesse ad incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’attività (art. 19 comma 1 Decreto Dignità).

Non è però vero (o almeno la domanda è mal posta) che la durata massima del contratto a tempo determinato è di norma quella di 24 mesi stabilita dal Decreto Dignità.

La norma sulla durata massima del contratto a tempo determinato stabilisce infatti: “fatto salvo quanto non diversamente previsto dai contratti collettivi……la durata massima è 24 mesi”.

È il contratto collettivo che disciplina la materia! Il legislatore ha delegato in primis la contrattazione collettiva (anche aziendale) a disciplinare la materia.

Se la contrattazione collettiva prevedeva 40 mesi di durata massima è questa quella massima, non 24 mesi indicati dal Decreto Dignità! Quindi non è vero che di norma la durata massima del contratto a termine è di 24 mesi.

Esclusivamente nel caso in cui la contrattazione collettiva non abbia disciplinato la durata massima del rapporto a termine si può fare riferimento alla disciplina prevista nel Decreto Dignità.

E si badi bene in alcuni contratti collettivi che riguardano anche settori piuttosto rilevanti della nostra economia ed una grande fetta di lavoratori la durata massima è ben superiore ai 24 mesi.

Si pensi solo al contratto collettivo Metalmeccanica industria in cui la durata massima è di 44 mesi; per i chimici farmaceutici e vetro sono 54! Anpal servizi spa ha rinnovato il contratto e prevede 82 mesi!

Inoltre ai fini del computo della durata massima di quel rapporto di lavoro a termine con riguardo a quel lavoratore per dirsi superato il limite di 24 mesi occorrerà che quel lavoratore per una durata complessiva superiore a 24 mesi sia stato assunto a termine anche con più rapporti aventi parità di livello e di categoria legale.

Pertanto se il lavoratore è stato assunto a termine mediante più rapporti lavorativi caratterizzati da mansioni e categorie legali differenti questi rapporti lavorativi non si sommano fra di loro perché deve trattarsi di rapporti a termine “a parità di mansioni e categoria legale”; laddove questa parità, manchi i periodi a termine non si computano nella durata massima e si riparte ogni volta da zero.

Inoltre la durata massima prevista dal Decreto Dignità non si applica al contratto intermittente e non riguarda le co.co.co.

Al termine della durata massima (24 mesi) è inoltre possibile comunque fare un ulteriore contratto dell’ulteriore durata massima di 12 mesi che si aggiunge alla durata massima; quindi i 24 mesi possono essere ben sforati.

Peraltro è vero che un datore di lavoro che assume a termine deve muoversi con scrupolo e tenere presente tutti i limiti e la disciplina vigente:

In ordine alla causale:

Si deve trattare di

a) “esigenze temporanee ed oggettive estranee all’ordinaria attività”: devono cioè essere esigenze non ordinarie dell’azienda, che non rientrano nel core business aziendale e che costituiscono attività di nicchia;

b) esigenze di sostituzione di altri lavoratori: deve essere chiaro nel contratto che quel lavoratore assunto sta sostituendo altro lavoratore per quella specifica ragione sostitutiva ad esempio la maternità, la malattia o per qualsiasi evento di assenza del lavoratore con il diritto alla conservazione del posto di lavoro;

c) esigenze connesse ad interventi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria: si deve trattare di incrementi temporanei (a termine), significativi (l’azienda non può cioè farne a meno, non può utilizzare l’attività ordinaria), non programmabili (devono essere incrementi imprevedibili) nel senso che il contratto a termine serve proprio a colmare una lacuna esistente in un momento di necessità di quell’azienda.

Non è ad esempio il caso di un negozio che vorrebbe assumere a termine nel periodo natalizio perché sa che vi è un incremento delle vendite o un incremento della clientela.

È risaputo che nel periodo natalizio si possono verificare dei picchi; quei picchi non possono essere considerati non programmabili, imprevedibili. Non si può assumere con questa causale.

Quando va utilizzata la causale?

Quando il primo contratto è al di sotto dei 12 mesi non devo indicare la causale.

Le attività stagionali rientrano nella durata massima stabilita dal Decreto Dignità?

Gli stagionali sono esclusi dalle regole del Decreto Dignità. Vi è però da sottolineare che la gamma dei rapporti c.d. stagionali è piuttosto ampia e vi sono numerosi rapporti di lavoro che pur avendo la peculiarità di essere stagionali non sono previsti e disciplinati come tali dalla contrattazione collettiva.

Detta lacuna crea un problema applicativo in tutti quei casi in cui la casistica dei rapporti stagionali non sia stata aggiornata dalla contrattazione collettiva.

Invero la contrattazione collettiva, a fronte del proliferare dei testi legislativi, è andata in secondo piano cosicchè ci si ritrova oggi dinanzi al paradosso che vi sono attività che sono a tutti gli effetti stagionali ma non vi è contratto collettivo che le qualifica come tali e quindi rientrano nell’alveo della durata massima stabilita dal Decreto Dignità.

In ordine alla proroga e al rinnovo: con la Riforma Renzi le proroghe potevano essere massimo 5 ora solo 4.

Che differenza c’è tra proroga e rinnovo?

La proroga consiste nello spostamento del termine finale del contratto quando il contratto è ancora in corso.

Se invece il contratto scade e le parti vogliono stipularne uno nuovo si parla di rinnovo e per il rinnovo occorre la causale.

In proposito la circolare n. 17/2018 del Ministero del lavoro aggiunge che ai fini non elusivi viene considerato rinnovo anche il primo contratto a tempo determinato laddove il lavoratore sia stato precedentemente utilizzato in regime di somministrazione.

È il caso ad esempio del lavoratore che viene assunto dall’Agenzia di somministrazione e impiegato presso un’azienda utilizzatrice per 4 mesi in somministrazione; successivamente scaduto il contratto viene riassunto direttamente per 4 mesi dall’azienda prima solo utilizzatrice; qualora ci si voglia avvalere di quel lavoratore precedentemente somministrato il nuovo contratto a tempo determinato alle dirette dipendenze dell’azienda viene considerato non come primo contratto a termine ma come rinnovo e va inserita la causale.

La distinzione tra proroga e rinnovo inoltre non è di poco conto se si considera il dato non trascurabile per cui ai contratti a tempo determinato si applica una maggiorazione contributiva di base dello 1,40 a cui si aggiunge una ulteriore maggiorazione contributiva dello 0,50 da addizionarsi per ogni rinnovo (art. 2 comma 28 l. n. 92/2012):

ossia:

1 contratto a tempo determinato: 1.40 (maggiorazione contributiva di base)
2 rinnovo 1.40 + (0,50 )
3 rinnovo 1,40 + (0,50x2);
4 rinnovo 1,40 + (0,50 x3)

Il contributo addizionale va inoltre calcolato anche per i rinnovi dell’attività stagionale previste da contratto collettivo.

Se l’azienda ha attività stagionale non prevista dalla Legge (ossia dal Dpr 1525/63) ma dal contratto collettivo deve applicare l’addizionale.

L’addizionale non si applica invece:

Di contro, la proroga, diversamente dal rinnovo, non necessità sempre di causale ma solo laddove vada a sforare la durata massima dei 12 mesi.

Ad esempio assumo a tempo determinato per quattro mesi poi tra quattro mesi il contratto che aveva durata a termine di quattro mesi lo prorogo per altri quattro mesi; in questo caso la causale non va inserita. Tuttavia se la proroga sommata ai primi quattro mesi della durata del primo contratto sfora i 12 mesi andrà inserita la causale.

Posso in sede di proroga del contratto a termine modificare la motivazione?

In ordine alla motivazione nella proroga la Circolare n. 17/2018 prevede che non sia possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione.

La motivazione pertanto inserita nella proroga deve essere la stessa motivazione che era stata inserita nell’iniziale contratto a termine.

Non si comprende l’introduzione di questo limite che prima non esisteva. Lo stesso Ministero del lavoro in una circolare del 2002 con riguardo alla legge 368 aveva infatti previsto che le ragioni giustificative della proroga potessero essere anche diverse; la circolare del 2018 invece stabilisce che la motivazione deve essere la stessa dell’iniziale contratto a termine.

Qualora pertanto il datore di lavoro abbia interesse a mantenere in forze a tempo determinato quel lavoratore magari per ragioni differenti dalla prima assunzione, non può prorogare il contratto deve fare il rinnovo. Deve cioè far cessare il primo rapporto di lavoro, rispettare lo stop and go, e riassumere.

Le regole previste dal Decreto dignità per il rapporto a termine si applicano anche alla somministrazione a termine?

No alla somministrazione a termine non si applicano diversi istituti previsti per il normale contratto a termine.

A titolo esemplificativo non si applica lo stop and go, il limite massimo di utilizzo e il diritto di precedenza (ad esempio se vi sono due lavoratori uno assunto a tempo determinato diretto e uno in somministrazione, entrambi i contratti scadono, il lavoratore a termine diretto ha diritto di precedenza il somministrato non lo ha).

Quanto tempo ho per impugnare un contratto di lavoro a termine?

Prima il lavoratore aveva a disposizione 120 giorni per impugnare; ora, col Decreto Dignità, 180 giorni.

Sono un architetto e mi è pervenuto un avviso di pagamento Inps per omesso versamento di contributi dovuti alla gestione separata Inps di cui all’art.2, c.26, L.335/95. Nella predetta missiva l’Inps mi ha riferito che, da una verifica eseguita, sarebbe risultata la dichiarazione da parte mia, oltre cinque anni fa, di un reddito di lavoro autonomo derivante dall’esercizio di arti e professioni non assoggettato a contribuzione obbligatoria a favore di altri Enti o Casse professionali diverse dall’Inps e mi ha comunicato di avere proceduto pertanto a calcolare d’ufficio l’importo dovuto alla gestione separata Inps per tale anno inviandomi la richiesta di pagamento di cui sopra. In realtà nell’anno, oggetto di contestazione da parte dell’Inps, ho svolto la professione di docente di ruolo di scuola superiore come da assunzione a tempo indeterminato e risultavo iscritto, in qualità di professore di scuola superiore e dunque di dipendente pubblico, all’Inpdap (ora Inps-ex Inpdap) e come tale ero o assoggettato in qualità di dipendente pubblico alla predetta contribuzione obbligatoria Inps.

Nel medesimo anno contestualmente all’attività di docente a tempo indeterminato, avevo svolto l’attività di architetto libero professionista e risultavo iscritto all’Albo degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, ero munito di partita Iva e avevo percepito un reddito superiore a € 5.000,00 annui (denunciato all’Inarcassa e all’Agenzia delle Entrate) e per detto reddito di lavoro autonomo avevo versato solo il contributo integrativo all’Inarcassa, Cassa previdenziale Architetti e Ingegneri, non prevedendo la mia cassa professionale anche il versamento di contributo obbligatorio. Posso contestare la richiesta di pagamento dell’Inps?

l’Inps pretende che gli Architetti non iscritti ad Inarcassa debbano iscriversi alla Gestione Separata INPS, e, conseguentemente, invia agli Architetti dapprima degli “avvisi bonari” e poi degli avvisi di addebito con cui afferma di aver iscritto gli Architetti stessi, d’ufficio, alla Gestione Separata INPS (da un determinato anno, indicato nell’avviso bonario medesimo), pretendendo di ricevere la contribuzione prevista per la suddetta Gestione previdenziale a nulla rilevando, a detta dell’Inps la circostanza che l’architetto non iscritto a Inarcassa abbia versato alla stessa il solo contributo integrativo, atteso che quest’ultimo, (secondo l’Inps) non avrebbe natura pensionistica.

In proposito occorre rilevare che dopo numerosi orientamenti della giurisprudenza di merito che si sono espressi in senso favorevole al libero professionista (ossia non obbligatorietà dell’iscrizione alla Gestione Separata Inps), sono recentemente intervenute le Sezioni Semplici della Corte di Cassazione che con due pronunce apripista la n. nn. 30344 e 30345/2017 in data 18.12.2017 ed altre intervenute ancora nel 2018 hanno concluso nel senso di ritenere che il professionista già titolare di una posizione previdenziale I.N.P.S. che versa il contributo integrativo alla cassa professionale non è esonerato dal versare il contributo previdenziale alla gestione separata, atteso che, argomenta, la Corte “chi è iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria non può essere iscritto alla Cassa, e, se così è, è inevitabile concludere che il suo versamento non può esonerare il professionista dall’iscrizione alla gestione separata”.

Tuttavia dette conclusioni delle sezioni semplici, non possono essere condivise alla luce dell’interpretazione costituzionalmente orientata della Legge istitutiva della Gestione Separata Inps e in virtù della stessa sentenza delle Sezioni Unite n. 3240/2010 ai cui principi si ritiene invece di aderire.

Invero anche la Corte d’appello di Palermo, pur consapevole di detto recente arresto giurisprudenziale delle sezioni semplici, ha ritenuto di discostarsi dallo stesso con ben tre sentenze gemelle successive e di accogliere invece una lettura costituzionalmente orientata della norma stabilendo la non obbligatorietà dell’iscrizione alla Gestione Separata per il libero professionista iscritto in apposito albo professionale e dotato di propria Cassa previdenziale alla quale versa il relativo contributo previdenziale.

Le tre pronunce della Corte siciliana meritano di essere richiamate in questa sede, oltre che per la cristallina chiarezza espositiva anche per la bontà delle argomentazioni in esse addotte che si discostano dal recente arresto di legittimità.

Per la Corte siciliana invero la tutela previdenziale per i professionisti iscritti in appositi albi non è disciplinata, come assume l’Inps, dal comma 26 art. 2 L. 335/1995, ma dal precedente comma 25 dello stesso articolo a mente del quale: “Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, norme volte ad assicurare, a decorrere dal 1 gennaio 1996, la tutela previdenziale in favore dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è subordinato all'iscrizione ad appositi albi o elenchi, in conformità ai seguenti principi e criteri direttivi:…(..)

Ed infatti, il Dlgs n. 103/1996 che ha introdotto la disciplina previdenziale per coloro che svolgono attività autonoma di libera professione ha stabilito che competenti a deliberare in materia di previdenza obbligatoria dovessero essere i soli enti esponenziali a livello nazionale degli enti preposti alla tenuta degli albi e, solo qualora fosse mancata detta attività deliberativa categoriale, allora la categoria professionale del caso avrebbe potuto essere inquadrata nella tutela (per l’appunto residuale) di cui all’art. 2 comma 26 della stessa L. 335/1995.

Sennonché il comma 25 è rivolto alla tutela di soggetti che svolgono attività di libera professione il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in appositi albi e/o elenchi e la cui tutela previdenziale, come sopra rilevato è assicurata dalla disciplina categoriale, mentre il comma 26 del medesimo articolo è rivolto a coloro che non risultano iscritti in nessun albo professionale e che siano anche privi di collegamento con l’ente previdenziale di categoria e che pertanto, poiché sprovvisti, necessitano di una necessaria copertura previdenziale mediante iscrizione alla Gestione Separata Inps.

Del resto le stesse Sezioni Unite nel 2010 avevano già chiarito successivamente all’entrata in vigore della Legge istitutiva della Gestione Separata, che il predetto quadro normativo deve essere interpretato nel senso “di escludere, in ogni caso, la doppia imposizione contributiva e di ritenere vigente in materia previdenziale il principio dell’“esclusività” in forza del quale l’iscrizione ad una gestione previdenziale esclude l’obbligo di contribuzione ad altro fondo per la stessa attività.

Mentre se si dovesse seguire il ragionamento delle sezioni semplici avviato dal dicembre 2017 si aprirebbe un gravissimo contrasto tra ordinamenti previdenziali (quello della GS separata I.N.P.S. e quello dell’Inarcassa), primo fra tutti quello relativo alla perdurante esistenza, o meno, dell’obbligo di versamento del contributo integrativo a Inarcassa ai sensi dell’art. 10 della legge n. 6/1981.

Questo perché il versamento del contributo previdenziale alla GS I.N.P.S. in misura pari al 27% comprende una quota di contributo integrativo di solidarietà.

Con la conseguenza che il professionista sarebbe assoggetto illegittimamente ad una doppia contribuzione per la stessa attività, circostanza che invece le Sezioni Unite del 2010 hanno chiaramente affermato di doversi escludere.

Dunque l’ultima interpretazione offerta dalle sezioni semplici della Corte di Cassazione non può convincere anche perché va a stravolgere il senso della sentenza delle Sezioni Unite n. 3240/2010 in cui a chiare lettere si afferma (come già chiarito anche dalla Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 335/2016 e n. 1147/ 2014 ed in tal senso tra le altre Corte d’Appello di Roma n. 2765/2017 anche Corte Appello di Genova, Sez. Lav., n. 373/2015, nonché n. 322/2015; idem precedente di Questa Corte Appello n. 1147 in data 27.11.2014, pubblicata il 23.01.2015, nonchè Corte d’Appello di Salerno n. 255/2016), che la legge n. 335/1995 è stata introdotta nell’ordinamento previdenziale come tutela previdenziale residuale destinata a tutelare come letteralmente previsto i “soggetti privi di una propria cassa previdenziale” e quindi lavoratori autonomi non iscritti all’Albo Professionale con redditi derivanti da attività estranee al proprio ordinamento professionale che non potessero ottenere diversamente una copertura previdenziale.

Infatti, sempre secondo le Sezioni Unite diversamente opinando e dunque, facendo proprie le argomentazioni dell’ultima Cassazione n. 430345/2017, si giungerebbe a sostenere che più che “un contributo destinato ad integrare un settore previdenzialmente scoperto, i conferimenti alla gestione separata avrebbero piuttosto il sapore di una tassa aggiuntiva su determinati tipi di reddito con il duplice scopo di fare cassa e di costituire un deterrente economico all’abuso di tali forme di lavoro”.

Si confida pertanto che le pronunce delle sezioni semplici restino dei precedenti isolati e vengano riaffermati i principi delle Sezioni Unite, pena l’introduzione nel nostro ordinamento di una tassa aggiuntiva in violazione del principio della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione.

In ogni caso deve osservarsi che qualora l’Inps avesse inoltrato l’avviso bonario oltre il termine prescrizionale di 5 anni previsto in materia contributiva la pretesa contributiva dell’Inps, sarebbe insussistente per intervenuta prescrizione del diritto controverso.

Invero, ai sensi dell’art. 3 comma 9 della L. 335/95 le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate trascorso il termine di cinque anni (nello stesso senso ex multis Cass. civ. sez. lav. 20.02.2014 n. 4050).

Secondo il disposto dell’art. 55 del R.D.L. n. 1827/1935, convertito in legge n. 1155/1936, il termine prescrizionale inizia il suo decorso a partire dalla scadenza del versamento dei contributi dovuti.

Tale principio, espressamente indicato nell'articolo 55, ha trovato conferma anche nell'interpretazione giurisprudenziale.

La norma trova applicazione sia per la contribuzione dei lavoratori dipendenti che per quella dei lavoratori autonomi.

Il successivo comma 30 dell'art. 2 della L. 335/1995, stabilisce che “con decreto del Ministro del Lavoro e della previdenza sociale.....da emanare entro il 31 ottobre 1995, sono definiti le modalità ed i termini per il versamento del contributo stesso”.

In applicazione della detta disposizione normativa, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale ha emanato il Decreto del 24 novembre 1995 che così dispone: “i titolari di redditi da lavoro autonomo di cui all'art. 49, co. 1, del testo unico delle imposte sui redditi (cioè gli esercenti arti e professioni in forma autonoma) sono tenuti a versare alla Gestione Separata di cui al comma 26 dell'art. 2 L. 335/95, un contributo del 10% dei redditi stessi dichiarati ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche. Tale versamento è effettuato nei termini previsti per il pagamento dell'imposta sul reddito delle persone fisiche”.

Di contro l' Inps, dopo alcune sentenze di merito (tra le altre, Trib. Torino n. 10852/2004), ha mutato il precedente orientamento (secondo il quale il decorso della prescrizione dei contributi dovesse decorrere dalla data in cui il fisco comunicava all'istituto il reddito prodotto dal soggetto obbligato), e ha stabilito che il termine prescrizionale per il versamento dei contributi alla gestione separata decorre dal giorno in cui doveva essere versato il saldo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'anno di riferimento (quindi, dall’anno successivo a quello di produzione dei redditi professionali) (Circ. Inps n. 69/2005).

Pertanto, secondo l’Ente Previdenziale, la prescrizione dei contributi dovuti ad esempio per l’anno 2014 decorrerebbe dalla data di scadenza prevista per il pagamento del saldo relativo alla dichiarazione dei redditi (2015) concernente l’anno 2014.

Tuttavia dette obiezioni dell’Inps sono infondate perché l'obbligo del versamento contributivo discende direttamente dalle citate disposizioni normative e non dalla presentazione della dichiarazione fiscale.

L'eventuale non conoscenza dei dati reddituali del contribuente da parte dell'Inps non integra un'impossibilità giuridica alla riscossione dei contributi, in quanto l'Ente è sempre nella condizione di richiedere la denuncia dei redditi al soggetto interessato o all'amministrazione finanziaria (Cfr Cass. 10828/2015).

La giurisprudenza di legittimità e di merito suindicata stabilisce, invero, diversamente da quanto affermato dall’Inps, che la prescrizione quinquennale dei contributi (art. 3, comma 9, L. n. 335/1995), decorre non dalla data del saldo irpef ma dalla data in cui avrebbero dovuto essere versati i singoli contributi in oggetto e quindi fa partire il decorso della prescrizione da una data che può evidentemente essere diversa e certamente anteriore alla data di scadenza prevista per il versamento del saldo irpef (Cass. 20.06.1999 n. 6645; Cass. 14.01.1989 n. 154).

Alla tesi difensiva dell'I.N.P.S. si è quindi da sempre opposta la Giurisprudenza di legittimità (fra le altre:ex plurimis Cass. 4389/99; Cass. 7878/98; Cass. 1296/98) secondo cui l'Ente di previdenza può in ogni caso accertare i redditi del contribuente o mediante propri funzionari o richiedendo copia della denuncia direttamente all'Amministrazione competente.

Peraltro, nel 2005, lo stesso I.N.P..S. ha emanato la circolare nr. 69 con la quale si è adeguato al consolidato orientamento giurisprudenziale.

Nella circolare è stabilito a chiare lettere che “il termine prescrizionale decorre dal giorno in cui i contributi in argomento dovevano essere corrisposti secondo la normativa vigente e, quindi, dal giorno in cui doveva essere versato il saldo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'anno di riferimento”.

Vi è stato al riguardo anche parere reso dalla dott.ssa Rosa Francaviglia, magistrato della Corte dei Conti), la quale, interpellata dallo stesso Ente, ha affermato che: “La giurisprudenza di merito ha ravvisato l’infondatezza di tali assunti dell’Inps stante che ben può l’Ente chiedere la denuncia dei redditi agli interessati od alla P.A. finanziaria direttamente.

Perciò, la Circolare n° 69/2005 non fa altro che prendere atto di detto orientamento stante l’esistenza di contenzioso in materia che ha comportato un ingente dispendio di pubblico denaro a titolo di spese legali… Conclusivamente, quindi, il termine prescrizionale per i contributi dovuti sulla quota di reddito eccedente il minimale imponibile decorre dal giorno in cui tali contributi vanno versati secondo la vigente normativa ossia dal giorno in cui va corrisposto il saldo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’ anno di riferimento.

In quest’ottica, si procede allo sgravio della contribuzione iscritta a ruolo con annullamento della imposizione ancora risultante in via amministrativa. Recitano i commi 9 e 10 dell’art. 3 della L. 8 agosto 1995, n. 335 …"le contribuzioni di previdenza ed assistenza sociale obbligatoria si prescrivono… in cinque anni…"

La Suprema Corte, interpretando la norma in questione ha rilevato che "in materia di prescrizione del diritto degli enti previdenziali ai contributi dovuti dai lavoratori…, l’art.3, comma 9… stabilisce tra l’altro che la prescrizione diviene quinquennale a partire dal 1° gennaio 1996 anche per i crediti maturati e scaduti in precedenza…” (ex multiis: Tribunale di Bari, sez. Lavoro, Giudice dott.sa Assunta Napoliello, sent. del 28.01.2015).

Ed infatti i soggetti titolari di partita IVA che sono iscritti alla gestione separata INPS devono versare i contributi che addebitano in fattura ai clienti entro la scadenza del 16 di ogni mese sulla base dei corrispettivi percepiti nel mese precedente.

Altra cosa è invece la data di scadenza per il pagamento dell’Irpef relativo a un detto anno che, salvo diverse disposizioni, viene generalmente fissata entro il 16 giugno dell’anno successivo rispetto a quello di produzione dei redditi, data che il contribuente deve comunque osservare come data ultima qualora decida di versare l’intero ammontare delle tasse in unica soluzione entro questa data; diversamente qualora sia prevista, la possibilità di versare il totale delle tasse (con una piccola maggiorazione dello 0,40) in più soluzioni il contribuente può avvalersi di rateizzazione e versare con rate aventi scadenze successive al 16 giugno.

Ne consegue che solo se il contribuente decide di avvalersi della rateizzazione, la data fissata per il pagamento dell’ultima rata di irpef e quindi del definitivo saldo dell’Irpef può essere anche di molto successiva alla data del 16 giugno e a maggior ragione a quella del versamento dei singoli contributi.

L’Inps, secondo la sua prospettazione, intende far decorrere la prescrizione dei cinque anni prevista in tema di contributi previdenziali non dalle scadenze dei singoli versamenti contributivi ma dall’anno successivo a detto versamento, guardando alle scadenze previste per l’Irpef.

Tuttavia, come già osservato, facendo decorrere la prescrizione dei contributi dalla data del saldo Irpef con le rateizzazioni (inteso come versamento anche dell’ultima rata irpef), come afferma l’Inps, e non dalla data di versamento dei singoli contributi così come previsto dalla giurisprudenza e dal quadro normativo suindicato, si allargherebbero a dismisura le maglie della durata del termine di prescrizione che potrebbe arrivare ad anche più di sei anni.

Sono creditore di un’associazione non riconosciuta che si è poi trasformata in società a responsabilità limitata, posso ottenere comunque il soddisfacimento del mio credito da parte della nuova costituita società nonostante il mutamento della forma giuridica?

Le associazioni non riconosciute rispondono delle obbligazioni contratte (quindi anche dei debiti) sia con il proprio patrimonio ( fondo comune), sia con i beni personali degli amministratori e di chi abbia agito in nome e per conto dell'associazione.

Invero, per eventuali debiti, risponde prima di tutto il patrimonio dell'associazione e, solo se questo non è sufficiente, rispondono il presidente e i membri del Consiglio Direttivo con il loro patrimonio (c.d. autonomia patrimoniale imperfetta) ossia coloro che hanno concordato e posto in essere gli atti contestati in nome e per conto dell’ente; in ogni caso se non prima dopo i singoli ne rispondono.

Diverso è il caso della società a responsabilità limitata (srl) che, come predice la stessa denominazione, per le obbligazioni assunte ha responsabilità limitata, ossia circoscritta al patrimonio della società. Pertanto il creditore della società ai fini del soddisfacimento del proprio credito potrà agire unicamente contro il patrimonio della società e pure nel caso in cui questo sia incapiente non potrà attaccare quello dei singoli soci della s.r.l. come invece accade per il creditore di un’associazione non riconosciuta.

L’art.38 c.c. prevede infatti che: “per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione”.

Il quesito proposto mira a capire se, per effetto della trasformazione di un’associazione riconosciuta in srl, la possibilità riconosciuta al creditore dell’associazione di rivalersi anche contro le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione ai sensi del’art.38 c.c. venga meno.

In proposito esiste un vero e proprio vuoto normativo.

Al riguardo è tuttavia intervenuta varia giurisprudenza (ex multis Tribunale di Bologna Sentenza n. 1109 del 16 giugno 2017) a colmare il vuoto normativo che ha ritenuto possibile la liberazione dei soci per i debiti contratti anteriormente alla trasformazione.

La giurisprudenza ha invero riscontrato la sussistenza di un’analogia tra la posizione degli associati di un’associazione e quella dei soci di una società di persone.

Per le società di persone (Sas, Snc o Società semplice) infatti la legge prevede espressamente che, a seguito della trasformazione della società di persone in società di capitali (Srl, Spa o Sapa), soltanto la nuova società e non i singoli risponde delle obbligazioni sociali seppure in precedenza i singoli, sotto la forma di società di persone, fossero responsabili e avessero agito in nome e per conto della società di persone.

Alla luce di quanto sopra detta giurisprudenza ha pertanto ritenuto che la trasformazione di società di persone in società di capitali e associazioni non riconosciute in società di capitali determina gli stessi effetti: in entrambi i casi per i debiti contratti dalla società di persone o dalla ex associazione risponde solamente la nuova società col proprio patrimonio e non i singoli con il proprio patrimonio personale.

Giova tuttavia sottolineare che nel caso della società di persone la liberazione dei soci a responsabilità illimitata non opera automaticamente per effetto della trasformazione in s.r.l..

L’art 2500-quinquies che riguarda la trasformazione di società di persone in società di capitali (e che qui, come illustrato può essere chiamato in analogia anche per la trasformazione da associazione non riconosciuta in società di capitali), stabilisce, infatti, che i soci sono liberati dalle obbligazioni sorte anteriormente alla trasformazione solo se i creditori prestano il loro consenso alla trasformazione Il consenso si presume, se i creditori non lo hanno espressamente negato, nel termine di 60 giorni dal ricevimento della comunicazione della trasformazione.

Pertanto sulla scorta della suesposta interpretazione analogica il creditore di un’associazione non riconosciuta che si è trasformata in società a responsabilità limitata non potrà agire nei confronti dei soci della srl se ha dato il consenso alla trasformazione o se non ha manifestato il dissenso nei termini di legge.

Potrà aggredire unicamente il patrimonio della s.r.l. (sempre che sia capiente).

Mi trovo a proseguire la mia attività di medico nello studio professionale fondato da mio padre ora deceduto, gli altri legittimari contestano in sede successoria il valore di avviamento dello studio professionale che io, figlio medico, continuo a gestire per disposizione di mio padre ma a detto studio può essere attribuito un valore di avviamento rilevante in sede successoria ai fini della suddivisione dei cespiti ereditari?

In linea di massima a un’attività professionale (come quella medica) non viene attribuito automaticamente un valore di avviamento da considerarsi anche in sede di successione ereditaria tranne nell’ipotesi in cui lo studio professionale sia anche corredato di un'organizzazione di mezzi e strutture, di un numero di titolari e di dipendenti, di un'ampiezza dei locali adibiti all'attività tali per cui l’elemento organizzativo e l'entità dei mezzi impiegati sovrastino l'attività professionale del titolare.

Diversamente, in difetto di detti presupposti, il trasferimento di uno studio professionale non è equiparabile al trasferimento di un’azienda che, invece, ha un valore di avviamento e il cui trasferimento a qualcuno degli eredi rileva in sede di successione e ai fini della suddivisione dei cespiti ereditari.

Il libero professionista non è infatti giuridicamente equiparabile a un imprenditore e la sua attività professionale non è un’attività imprenditoriale.

Da sempre la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che non si può equiparare lo studio professionale all'azienda - che ai sensi dell'art. 2555 cc designa il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa.

In uno studio professionale, infatti, l'elemento prevalente e determinante è l'intuitus personae, (le qualità personali del professionista) a cui non è attribuibile un valore di avviamento neppure in sede di trasferimento dello studio professionale poiché i successi e le prosperità del professionista “acquirente” possono derivare unicamente dalle proprie qualità professionali e non da quelle del professionista cedente.

Pertanto atteso il difetto di un valore di avviamento dello studio professionale in sede di cessione, anche in sede di successione detto valore di avviamento dovrebbe difettare mentre è pacifico che rientrino nell'eredità i beni dello studio quali gli immobili di proprietà adibiti all’attività professionale, gli arredi, i computers, scrivanie.

Nondimeno, la realtà pratica mostra sempre più spesso esempi di studi professionali strutturati sotto forma di società, di azienda "professionale" (ad esempio, l'esercizio dell'attività di avvocato in forma societaria) che si caratterizzano per un'organizzazione di mezzi e strutture, un numero di titolari e di dipendenti, un'ampiezza dei locali adibiti all'attività tali che il fattore organizzativo e l'entità dei mezzi utilizzati sovrastano l'attività professionale del titolare e assumono una rilevanza economica suscettibile di valutazione monetaria e anche di eventuale contrattazione in base al combinato disposto di cui agli articoli 2238, 2082, 2112 e 2555 cc.

Ed invero copiosa giurisprudenza di legittimità (ad esempio, ex multis Cassazione, sezione lavoro, 14642/2006), ha sostenuto la configurabilità del trasferimento di azienda anche in ordine agli studi professionali tutte le volte in cui al profilo professionale dell'attività svolta si affianchi un'organizzazione di mezzi e di strutture, un numero di titolari e di dipendenti, una ampiezza di locali adibiti ad attività professionale tali che il rapporto organizzativo e l'entità dei mezzi impiegati sovrastino l'attività del titolare, il cui accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se fondato su una motivazione adeguata e immune da errori, sempreché concorrano due requisiti: uno, obiettivo, rappresentato dalla continuità dell'azienda come entità economica organizzata dall'imprenditore e uno, soggettivo, consistente nella sostituzione dell'imprenditore.

Potrebbe dunque affermarsi che qualora lo studio medico trasmesso dal proprio padre abbia una vera e propria organizzazione di mezzi e di strutture, un numero di titolari e di dipendenti un'ampiezza dei locali adibiti all'attività tali che il fattore organizzativo e l'entità dei mezzi impiegati sovrastino l'attività professionale del titolare, certamente detto studio ha un valore di avviamento rilevante il cui trasferimento può avvenire anche a titolo oneroso (dietro un corrispettivo) e pertanto il valore dell’attribuzione ereditaria di detto studio potrebbe analogicamente farsi valere in sede di successione e ai fini della suddivisione dei cespiti ereditari.

Ho sottoscritto un formulario di adesione a un corso di lingua inglese con specifica assunzione dell’impegno, da parte della società erogante, alla tenuta del predetto corso secondo tre fasce orarie tra cui quella serale. A seguito della sottoscrizione del formulario (che io pensavo essere un semplice questionario e non un contratto vero e proprio, peraltro mai consegnatomi), la società, tramite un suo insegnante, mi ha comunicato l’impossibilità di procedere alla tenuta del corso in fascia serale per mancanza di adesioni potendo unicamente garantire le altre due fasce: mattutina e pomeridiana. Ho manifestato alla segreteria della società di formazione la mia impossibilità alla frequentazione del corso in fascia serale per comprovate ragioni lavorative chiedendo di considerarmi liberato da qualsivoglia impegno contrattuale che ritenevo non avere assunto. La società tuttavia continua a subissarmi di richieste di pagamento e minaccia l’avvio di conseguenti azioni giudiziarie sulla scorta del rilievo secondo cui il diritto di recesso avrebbe dovuto essere esercitato non oltre 14 giorni dalla sottoscrizione del contratto. La società aggiunge peraltro che pure nell’ipotesi di tempestivo esercizio del diritto di recesso, sarei tenuto al versamento della relativa penalità corrispondente alla quota di iscrizione.. C’è modo di liberarsi dal predetto contratto e dai conseguenti onerosi obblighi?

Accade frequentemente nei rapporti quotidiani che si stipulino dei contratti c.d. per adesione redatti mediante formulari ossia contratti in cui le condizioni non sono frutto di una vera e propria contrattazione collaborativa ma sono stabilite da principio da una delle parti (in linea di massima società o imprenditore), e che vengono proposte ad un numero indeterminato di possibili contraenti.

Da una parte vi è il predisponente il testo contrattuale, dall’altra colui che aderisce a detto testo contrattuale il quale se del caso si ritrova a integrare gli spazi bianchi del predetto formulario con i propri dati personali e ad apporre la propria sottoscrizione a fondo del modulo o formulario già predisposto.

Nella prassi simili formulari vengono spesso impiegati per la conclusione di contratti c.d. “a distanza”e /o tramite internet, in materia assicurativa, in materia bancaria, per l’erogazione di servizi telefonici o di fornitura dell’energia elettrica, dell’acqua, del gas ma sovente anche nell’ambito della formazione e dunque anche per la partecipazione a dei corsi di lingua.

Con riguardo a detti contratti il codice civile (art. 1341 ) stabilisce l'inefficacia, tra le condizioni generali di contratto, delle clausole “vessatorie” non specificamente sottoscritte e ciò a tutela della parte non predisponente che si ritrova a sottoscrivere un testo contrattuale già predisposto da altri.

Si definiscono vessatorie, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, oppure sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, oppure come in questo caso relativamente al recesso escludono la facoltà di recedere liberamente ed impongono comunque il pagamento della quota di iscrizione.

Tali condizioni sono efficaci nei confronti dell'altro, solo se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza (art. 1341 c.c.). In ogni caso, le clausole vessatorie non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto.

Occorre cioè che in contratto sussista una duplice sottoscrizione un richiamo esplicito di queste clausole per considerarle approvate per iscritto e dunque efficaci. In genere ciò avviene quando dopo la sottoscrizione delle condizioni generali di contratto segue l’ulteriore sottoscrizione “ai sensi e per gli effetti dell’art. 1341 e 1342 c.c. l’allievo dichiara di approvare espressamente tutti gli articoli e le clausole di seguito indicate: (..)” Il richiamo delle clausole vessatorie per la doppia sottoscrizione non deve avvenire con un richiamo in blocco tutto il contratto ma deve essere effettuato segnalando solo la/ le clausole che dovrebbero essere vessatorie.

La ratio che sta alla base della doppia sottoscrizione delle clausole vessatorie è, infatti, quella di richiamare l’attenzione del contraente, in posizione di squilibrio sulle stesse.

Se, diversamente, si effettua un richiamo in blocco di tutti gli articoli del contratto (anche di quelli non vessatori) come fa il contraente a capire l’importanza di quella ulteriore firma?

Ossia come fa a rendersi conto che sta sottoscrivendo clausole a sé sfavorevoli se invece vengono richiamate indiscriminatamente tutte le clausole del contratto?

Dove sta la ratio di suscitare attenzione?

Ed invero la Corte di Cassazione ha previsto che “l’esigenza di specificità e separatezza imposta dall’art. 1341 c.c. non è soddisfatta mediante il richiamo cumulativo numerico e la sottoscrizione indiscriminata di tutte o di gran parte delle condizioni generali di contratto, solo alcune delle quali siano vessatorie, atteso che la norma richiede, oltre alla sottoscrizione separata, la scelta di una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del contraente debole sul significato delle clausole, a lui sfavorevoli, comprese tra quelle specificamente approvate” (Cass. sent. 20606/16).

Vi è inoltre di più perché queste clausole, qualora nella fattispecie in oggetto fosse applicabile il codice del Consumo, non solo sono inefficaci (come prevede il codice civile) ma addirittura nulle.
Il codice del Consumo ( Dlgs. 204/2005 come modificato dal Dlgs 21/2014) ) prevede che le disposizioni in esso contenute si applichino solo ai contratti conclusi tra chi può essere definito professionista da una parte e consumatore, dall’altra e per determinate categorie di contratti.

È consumatore la persona fisica agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta mentre è professionista la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale o un suo intermediario (quale potrebbe essere il Centro di formazione).

Tra i contratti oggetto della disciplina del codice del consumo vi sono ad esempio:

Per locali commerciali si debbono intendere:

1) qualsiasi locale immobile adibito alla vendita al dettaglio in cui il professionista esercita la sua attività su base permanente; oppure;

2) qualsiasi locale mobile adibito alla vendita al dettaglio in cui il professionista esercita la propria attività a carattere abituale;

Nel caso in esame la società di formazione esercita detta attività professionalmente mentre l’utente che ha sottoscritto il contestato modulo di adesione all’attività formativa è una persona fisica mossa da intenti formativi extra lavorativi.

La normativa speciale del Codice del Consumo risulta pertanto applicabile al caso in esame.

In particolare l’art. 73 del Cod. Consumo in punto recesso prevede che il periodo di recesso scade: dopo un anno e quattordici giorni a decorrere dalla data di cui al comma 2 del presente articolo se il formulario di recesso separato previsto all'articolo72, comma 4, non è stato compilato dall'operatore e consegnato al consumatore per iscritto, su carta o altro supporto durevole.

Ciò sta a significare che se il predisponente il formulario non ha consegnato un formulario separato di recesso (e ne deve fornire prova di avvenuta consegna separata) il consumatore non ha 14 giorni per recedere dal contratto bensì 1 anno e 14 giorni a decorrere dalla data di conclusione del contratto, quindi in applicazione di detta disposizione speciale il decorso dei termine di 14 giorni previsto in contratto non può essere opposto attesa la mancata consegna del contratto e formulario separato di recesso.

Inoltre della condotta contrattuale del centro di formazione emergono una serie di profili di illegittimità rilevanti ai fini dell’invalidità del contratto e di una intimazione all’autorità garante della concorrenza e del mercato.

Il codice del Consumo prevede infatti il divieto di pratiche commerciali scorrette.

Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico,in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.

Ed invero la società di formazione ha assunto in contratto l’obbligazione alla tenuta del corso secondo tre fasce orarie tra cui quella serale con ciò facendo intendere all’utente che, se avesse voluto, avrebbe potuto frequentare la fascia serale ed effettivamente lo stesso ha accettato l’iscrizione perché interessato a quella fascia oraria specificamente prevista in contratto.

Operando in questo modo l’ente di formazione ha falsato il comportamento economico dell’utente, lo ha indotto a sottoscrivere con l’allettante prospettiva di facoltà di scelta della fascia oraria senza specificazione di una riserva di indisponibilità nel caso in cui gli alunni non fossero stati abbastanza.

La conferma di questo atteggiamento scorretto e ingannatorio viene anche dal loro sito internet. Ed infatti alla pagina “info corso” ribadiscono la garanzia alla tenuta del corso secondo la fascia mattutina, pomeridiana e serale.

Possono essere certo ravvisati dunque tutti gli estremi di un’azione ingannatoria finalizzata a viziare la volontà negoziale e rilevanti ai fini di un esposto all’Autorità garante della Concorrenza e del mercato proprio per aver loro affermato in contratto un qualcosa non attuato al fine di addossare assurdamente le conseguenze di un loro non previsto ius variandi sul contraente più debole che, ignaro della possibilità di variazione, si è determinato a concludere il contratto proprio perché quella loro disponibilità, quell’impegno assunto in contratto alla fascia serale era essenziale ai fini della frequenza al corso.

Ed infatti secondo il codice del consumo è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio portandolo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Sussistono inoltre gli estremi di pratiche commerciali non solo ingannatorie ma aggressive per avere la società di formazione inoltrato più di un sollecito di pagamento aggiornando la posizione debitoria dell’utente intimando un contenzioso davanti al Tribunale a convincimento della fondatezza della loro richiesta.

Ed infatti è considerata aggressiva qualsiasi minaccia di promuovere un'azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata ed anche quelle pratiche commerciali che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie o indebito condizionamento, limitano o sono idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo inducono o sono idonee ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

È dunque certamente possibile liberarsi dal contratto concluso attraverso il legittimo ed ancora tempestivo esercizio del diritto di recesso in conformità alla disciplina legale speciale che prevede un ampliamento dei termini legali per l’esercizio del diritto di recesso a seguito della mancata consegna (all’atto della conclusione) di una o più copie del contratto e del formulario separato di recesso.

Inoltre atteso il difetto di esplicita separata doppia sottoscrizione mediante una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del contraente debole sul significato delle clausole, a lui sfavorevoli, le clausole vessatorie che prevedono la penalità del pagamento della quota di iscrizione sono da considerarsi nulle.

In ogni caso, pur a voler assurdamente affermare la validità delle suddette condizioni contrattuali e la decadenza dal diritto di recesso, l’asserito contratto pretesamente concluso è comunque affetto da rilevanti vizi nella formazione della pretesa volontà negoziale da determinare l’invalidità dello stesso e un’azione sanzionatoria presso le competenti Autorità garanti.

 

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